Quando si parla di cinema, sulle case infestate si può dire di tutto e di più. Un po’ meno si può dire quando si parla di serie tv: a colmare questo buco ci ha pensato l’ultima arrivata in casa Netflix, “Hill House”. Dieci episodi piuttosto intensi, in cui i fantasmi interiori dei membri della famiglia Crain aleggiano indisturbati in ogni scena, contribuendo in maniera sostanziosa al livello di pathos e disagio che subiamo e viviamo puntata dopo puntata. Vagamente ispirato da un romanzo del 1959 (“L’incubo di Hill House”), lo show di Mike Flanagan ha ritmo, scrittura, gode di alcune scene assolutamente memorabili e non regala risposte se non nelle ultime due puntate.
La famiglia Crain si trasferisce a Hill House, una tenuta fuori dai confini della città, per passarci l’estate nel tentativo di ristrutturarla e poi rivenderla. Una notte, per motivi all’inizio non chiari, il padre carica i cinque figli e li porta lontano con l’automobile, lasciando la moglie sola nella casa. Venticinque anni dopo i figli sono grandi, ma si trascinano nella vita tutti i fantasmi di quell’estate trascorsa a Hill House e soprattutto il ricordo della madre morta apparentemente suicida proprio quella fatidica notte. Una nuova tragedia costringerà la famiglia Crain a riaprire i conti con il passato.
Flanagan è bravo a raccontare la storia ogni volta da un punto di vista differente, aggiungendo dettagli, omettendone altri, spaventandoci come bambini ma infondendoci anche il coraggio degli adulti. Gli episodi sono dunque aggiornamenti sulle vite dei personaggi ma anche il ricordo di un luogo che è una sorta di non-luogo, fino al bellissimo episodio 6 (“Due temporali”), che attraverso alcuni piani sequenza riunisce tutti i personaggi nello stesso luogo, dove strane cose cominciano nuovamente ad accadere. Prima stagione certamente interessante, moderatamente sorprendente e di sicuro da promuovere. Perché ci sono porte che non andrebbero mai aperte…